domenica 15 gennaio 2012

Le due tigri

Autore: Emilio Salgari

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Il mio "viaggio" nella letteratura per ragazzi continua con Le due tigri di Emilio Salgari. Qui vediamo Sandokan  spingersi fino in India insieme al fedele amico Yanez per salvare la figlioletta di Tremal-Naik, Darma, rapita dai settari della dea Kalì, il cui capo è il malvagio Suyodhana.
Le due tigri del titolo sono infatti quella della Malesia, e cioè Sandokan, e quella dell'India, il capo dei settari.
La storia è successiva ai romanzi Le tigri di Mompracem, I misteri della jungla nera e I pirati della Malesia, ma può essere letto anche isolatamente.
E' questo un libro che mantiene ciò che promette, e cioè avventura. Non è possibile, infatti, girare pagina senza che i protagonisti si trovino a dover fronteggiare dei pirati, cadano in un'imboscata o rischino di essere assaliti da animali feroci.
Molto belle le descrizioni dell'ambiente naturale in cui si muovono Sandokan e compagni, ed anche quelli degli interni, meno numerosi.
E' interessante che l'autore dia anche informazioni al lettore, come nel caso dell'insurrezione indiana o del destino delle vedove del subcontinente, il che permette di calarsi meglio nella storia e, perché no, di acquisire qualche informazione in più.
Benché il romanzo sia zeppo di traditori e assassini -ma senza mai risultare violento-, mi ha colpito molto constatare quanti buoni sentimenti, ingenuità e fiducia verso il prossimo alberghino invece nei protagonisti.
Un pò deludente solo la lotta tra le due tigri, conclusasi davvero troppo presto.

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-Chi siete voi dunque, che dalla lontana Malesia venite qui a sfidare la potenza dei thugs, che ha resistito e resiste tuttavia ai colpi del governo anglo-indiano?-
-Chi siamo noi?- disse Yanez alzandosi. - Degli uomini che un giorno hanno fatto tremare tutti i sultani del Borneo, che hanno strappato il potere a James Brooke, lo "Sterminatore dei pirati", ed hanno fatto impallidire perfino il leopardo inglese: noi siamo i terribili pirati di Mompracem!-


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Giudizio personale:  3/5


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Approfondimenti/1 - I Thugs


Nel romanzo Sandokan, Yanez e i loro compagni combattono contro i terribili settari di Kalì, i Thugs.


Si può dire che i Thugs sono stati una setta di assassini che contava una numerosa schiera di seguaci ed una ancor più folta moltitudine di vittime. L’appartenenza alla setta era segreta, e gli adepti erano insospettabili che quotidianamente conducevano una vita rispettabilissima.
I Thugs non erano infatti banditi comuni: la loro attività era determinata da profonde convinzioni religiose. 
Le uccisioni da loro perpetrate avevano lo scopo di ingraziarsi la loro divinità ispiratrice e protettrice, la dea Kalì, guadagnando così meriti per sfuggire all'altrimenti eterno ciclo della reincarnazione. E ciò non solo per loro stessi, ma anche per le loro vittime.
Questo però era possibile solo se la vittima veniva uccisa secondo uno specifico rituale.
 
Il rito del sacrificio, chiamato THAGI, prevedeva l’uccisione per strangolamento, ed era importante che avvenisse senza spargimento di sangue. 
L’episodio che in questo modo veniva ricordato e perpetuato era quello della creazione stessa dei Thugs: all’inizio del mondo, mentre gli dei stavano creando i primi esseri umani, questi venivano continuamente uccisi dal demone RIKTAVIJ. Per sconfiggere tale demone gli altri dei chiesero aiuto a Kalì, ma anch’essa non riuscì nell’impresa, perché ogni volta che, con la sua spada, tagliava in due il demone, questi si rigenerava continuamente dal suo stesso sangue. Allora la dea creò due uomini che fornì di due strisce di stoffa prese dal proprio vestito, e questi le usarono per uccidere il demone senza versare sangue. Furono i primi due Thugs, e a loro e ai loro discendenti la dea dette il compito di immolare tutti gli altri demoni che avessero incontrato.

Dai demoni agli esseri umani il passo fu breve. 
I Thugs non uccidevano donne e bambini e spesso adottavano i piccoli delle loro vittime. Inoltre sfuggivano ai loro terribili e mortali fazzoletti gli appartenenti ad alcune categorie di lavoratori che erano sacri alla loro protettrice, quali ad esempio ciabattini, carpentieri, fabbri e tagliatori di pietre.
I thugs spesso si univano a carovane e, dopo averne ottenuta la fiducia, sorprendevano i componenti e li sterminavano. 
Utilizzavano un "fazzoletto" di seta, detto RUHMAL, piuttosto lungo, arrotolato e provvisto ad una estremità di una pesante moneta. Esso veniva indossato come una cintura e poi utilizzato facendolo roteare in modo che la moneta colpisse la testa della vittima, stordendola.
L’attività dei Thugs era giunta nel XIX secolo a provocare migliaia di vittime ogni anno.
Nel 1826 fu incaricato di combatterli il capitano William Sleeman. Questi studiò a lungo il loro mondo segreto ed intraprese una dura lotta, riuscendo a sconfiggerli e debellarli in un tempo sorprendentemente breve. I Thugs comunicavano tra loro utilizzando un codice segreto detto RAMASEE, che Sleeman decifrò, e questo contribuì notevolmente ad accelerare la loro sconfitta. Nella sua azione utilizzò anche molti "pentiti" e questo, unito anche alla distanza culturale tra i giudici inglesi e gli accusati indiani, produsse probabilmente anche numerosi errori giudiziari. 
La repressione fu nel complesso molto dura (ca. 4 mila giustiziati) ma accompagnata anche da numerosi esempi di clemenza; ad esempio i pentiti avevano salva la vita e venivano inviati, insieme ai più giovani catturati, in istituti di rieducazione.

Nella memoria inglese i Thugs sono rimasti con una connotazione profondamente negativa, tanto da entrare nel loro vocabolario, dove "thug" significa letteralmente "delinquente", "teppista". In realtà "thug" è la anglicizzazione della parola sanscrita "thag" che significa "ingannatore".
In India la presenza dei Thugs risale almeno al XIIII secolo, ma essi furono attivi soprattutto nel XVIII-XIX secolo nella zona nordorientale e in particolare nel Bengala. 
Infatti Kalì è tradizionalmente la dea protettrice di Calcutta, la capitale dello stato del Bengala. 
La città stessa di Calcutta deve il suo nome all’esistenza di un tempio dedicato a tale dea. Infatti, in bengalese, la città di Calcutta si chiama KALIKATA. Questo è il nome bengalese di uno dei tre villaggi che gli Inglesi nel XVIII secolo riunirono per edificare la futura capitale dei loro possedimenti in India, nome dovuto appunto alla presenza del più famoso santuario della dea, il Kalighat.


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Approfondimenti/2 - La dea Kalì

(click per ingrandire)

Kali ("la nera") è la madre dea Hindu, simbolo di dissoluzione e distruzione. 
Appare per la prima volta nel Rig Veda non in qualità di divinità, ma come lingua nera delle sette lingue fiammeggianti di Agni, il dio del fuoco.
Inviata sulla Terra per sgominare un gruppo di demoni, iniziò ad uccidere anche gli esseri umani. Per fermarla, Śiva si distese fra i cadaveri, e quando la dea si accorse che stava per calpestare il proprio marito, interruppe la sua furia.

La sua apparenza è terrificante: ha occhi minacciosi, lingua sporgente e quattro braccia. 
In una mano alzata impugna una spada insanguinata e in una abbassata tiene la testa recisa di un demone. Con la mano sinistra compie un gesto di minaccia, mentre la destra accorda benefici. 
Intorno a lei vi è una catena di teste umane mozzate, ed indossa una cintura composta di braccia smembrate. E' spesso rappresentata danzando o in unione sessuale con Shiva. 

La rigogliosa capigliatura di Kali è arruffata, e simboleggia la sua illimitata libertà primordiale. Un’altra interpretazione dice che ogni capello è un jiva (anima individuale), e che tutte le anime hanno le loro radici in Kali.
La dea ha tre occhi; il terzo è quello della saggezza.
La sua lingua protesa è una manifestazione della sua natura terribile e divoratrice; è invece considerata a volte un segno di ritrosia, perchè sta involontariamente calpestando il corpo del suo sposo Shiva.
Le braccia rappresentano la capacità all'azione, mentre i cinquanta crani rappresentano le cinquanta lettere dell’alfabeto; la carnagione scura rimanda alla dissoluzione di ogni individualità; la nudità della dea significa la caduta di ogni illusioneil laccio con cui prende le teste per mozzarle rappresenta la caducità di tutto ciò che esiste.



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